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NETTUNO
OTTO/'900

Persone, storie e tradizioni
a Nettuno nel 1800-1900

di AUGUSTO RONDONI

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33 - Il colera


Verso la metà del 1911, a causa di una infezione intestinale con diarrea e vomiti che afflisse non pochi nettunesi, l'autorità sanitaria di allora credette di ravvisare i primi sintomi epidemici del colera (morbo epidemico originario dell' India).
Ritenendo di operare nel giusto, il dottore dapprima cominciò a somministrare delle medicine ma costatandone poi l'inefficacia, pensò di arginare il contagio, prelevando gli affetti con la barella ed isolarli nel lazzaretto, abbandonandoli a se stessi senza alcuna assistenza. Il dottore era un giovane ufficiale medico di stanza al Sanatorio militare di Anzio.
Tra le famiglie più colpite fu quella di Crisostomo Maiozzi, che faceva il carrettiere a vino per conto dei fratelli De Franceschi. Portava il vino a Roma facendo la spola ogni settimana o dieci giorni. Aveva famiglia e doveva darsi da fare per tirarla su. Una volta, di ritorno dai suoi viaggi, non trovò più la moglie a casa. Era morta al lazzaretto a seguito dell'aggravarsi dei mal di pancia e diarrea con cui l'aveva lasciata prima di partire. Il dottore la aveva visitata più volte e trovandola sempre peggiorata provvide ad avviarla nella chiesa abbandonata e sconsacrata di S. Croce del vecchio cimitero in Via S. Maria. Elisabetta Monaco vi morì senza alcuna assistenza. Crisostomo dovette accettare per forza la grave perdita. Fortunatamente i figli godevano ottima salute. Benedetto era già sposato, Teodorico lavorava e la figlia Evelinda, quattordicenne con in braccio il fratellino Alfiero, appena di diciotto mesi, all'insorgere della malattia della madre, si erano trasferiti presso parenti. Lui, seppur addolorato, si rimise quasi subito in viaggio per ritornare una diecina di giorni dopo. Questa volta, al suo ritorno non trovò più il figlio Teodorico che, caduto ammalato, fu presto prelevato, dietro ordine del dottore, dai portantini per essere isolato al lazzaretto, facendo presto la stessa fine della madre. Questa drasticità sanitaria cominciò ad allarmare i nettunesi, che vociferavano l'inettitudine degli organi preposti.
La disperazione e lo sconforto che avvolse Crisostomo fu immensa, vedendosi quasi distrutta la famiglia. Cercò di riversare il suo affetto sui figli Evelinda ed Alfiero (che ancora oggi sono vivi e vegeti) che dai suoi parenti erano stati trasferiti alla Vigna dei Tinozzi, dove tra una poppata e l'altra, rimediata da madri con bambini in fasce, contribuirono a svezzare presto Alfiero dall'allattamento.
Più tardi, Crisostomo, di ritorno da un ulteriore viaggio a Roma, riposava nella sua casa di Via Stefano Porcari quando sentì bussare all'uscio. Aprì e si trovò davanti il dottore e due "beccamorti" con la barella pronta. Pretendevano prelevarlo ed isolarlo al lazzaretto!

 

Il pover'uomo disse al dottore: "Come!? vengo mò da lavorà, sò forte e pieno de salute e me voi portà là?!". All'insistenza del dottore che sollecitava i barellieri a prenderlo, Crisostomo non ci vide più e reagì con uno spintone ai due: agguantando poi la barella e sfilandone una stanga cominciò a menare botte da orbi. Il medico spaventato dalla sua forza, scavalcò la finestra, dandosi a precipitosa fuga per Via Sacchi. incontrò, prima di sboccare su Piazza Colonna, Gigi Cancelli, macellaio, che di ritorno dall'arrotino riportava un fascio di coltelli affilati a casa. Il medico, spaventato dalla reazione di Crisostomo, che oltre a malmenare i portantini, strillando come un ossesso aveva dato l'allarme alle donne del vicinato, in preda al panico, vedendo Gigi coi coltelli venirgli incontro, estrasse la pistola e sparò un colpo per farsi largo, ma ferì incidentalmente il povero Gigi. Essendo inseguito anche dalle donne armate di bastoni, di manici di scopa e di ronchetti, attraversò Via M.. Colonna e raggiunse presto il tram in sosta per Anzio. Vi salì e con l'arma ancora in mano, costrinse il conducente a muoversi alla svelta. intanto il clamore aveva richiamato i carabinieri in piazza per questa turba di donne inferocite ed armate, che avrebbero voluto raggiungere il dottore. Presero le due più scalmanate, Rosa D'Annibale e Superia Leggi, e le tradussero in caserma, denunciandole per minaccia a mano armata contro pubblico ufficiale. Scontarono due mesi di prigione. Però il fatto clamoroso fece cessare di colpo il colera sospetto, e fece sparire definitivamente dalla circolazione il dottore.


Anche la famiglia Della Portella cominciò a rivivere in pace, dopo che Fosca, sposata Colaluca, venne isolata al lazzaretto, dove mori. Quando più tardi vennero a prelevare la cognata, Giuseppina Bruschi, riuscì ad evadere dalla sua casa rocambolescamente, e si rifugiò, per più di una settimana, in mezzo ad un canneto ai "Tinozzi". Augusto Della Portella, falegname, allora appena decenne, figlio di Giuseppina Bruschi, si salvò invece affibbiando un morso alla mano del carabiniere che lo teneva stretto, svincolandosi poi e scappando all'impazzata per raggiungere più tardi il nascondiglio della madre. Madre e figlio vissero a lungo e morirono di morte naturale a tarda età.
Il povero Crisostomo Maiozzi, passata la buriana, si risposò con Quintina Casaldi, dalla quale ebbe un figlio a cui impose il nome di Teodorico.
Timoteo Cibati fu chiamato alle armi durante la guerra per l'occupazione della Libia, che si concluse vittoriosamente, nel 1912, ai danni della Turchia. Era soldato in guarnigione, quando si presentò una mattina dal caporale di giornata per mettersi in nota onde marcare visita trovandosi indisposto. Più tardi si recò all'infermeria dove trovò un capitano medico che gli chiese di dove fosse. Egli rispose che era della provincia di Roma.
L'ufficiale ripetè: - "Ma di che parte?" - "Di Nettuno" rispose. Il Cibati vide che il capitano cambio colore, ma li per lì non fece caso. Il medico lo visitò e gli fece fare un'iniezione, assegnandogli un giorno di riposo. Per quell'iniezione il Cibati si sentì talmente scombussolato durante la notte che non poté dormire e ripensando al dottore, come se fosse una faccia conosciuta, riconobbe in lui il medico che scappò da Nettuno ai tempi del "colera". Era sparito dalla circolazione!
Alla morte del vecchio farmacista, Giuseppe Tomasi, avvenuta nel 1912 la famiglia, in memoria dello scomparso eresse un busto bronzeo che pose a monumento sulla tomba. Essendo questa ubicata a ridosso del muro di cinta del cimitero, ben in vista anche dalla strada, alcuni nettunesi, memori delle medicine inefficaci pozionate nella sua farmacia, ritenendolo in parte responsabile dei lutti verificatisi, inveivano al passaggio, non visti, spruzzandolo con la pompa dell'acqua ramata riducendolo verde in volto. I familiari furono costretti a spostare più all'interno la sua tomba.





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