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I CORSARI DI
TORRE ASTURA

di Antonio Pagliuca

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33 - Al galoppo verso la felicità


Inforcate le cavalcature e rinnovati i saluti al Principe i cavalieri incominciarono la memorabile galoppata verso la felicità.

I quattro cavalli, che il Principe aveva fatto sellare, erano i migliori della sua scuderia. Quelli montati da Sebastiano e da Leonardo erano due destrieri dal colore fulvo; erano cavalli da sella che avrebbero potuto mantenere una corsa sostenuta per molto tempo senza dare segni di stanchezza. Avevano la testa eretta, le orecchie dritte e scalpitavano come se avessero fretta di partire per arrivare in tempo. I due quadrupedi cavalcati dallo scudiero del Principe e da Assunta erano invece due palafreni, dal portamento nobile e dal colore nero. Non mostravano l'aire ed il portamento degli altri due, ma erano così ben piantati, da far dedurre che avrebbero potuto far di più e meglio pur senza indulgere ad atteggiamenti di superbia.

Erano due cavalli mansueti, ma generosi e di nobile portamento, mentre gli altri due si sarebbero potuti definire vivaci, briosi e focosi.

II terreno era bagnato a causa dei fastidiosi piovaschi che in quel periodo erano frequenti, ma il fondo stradale era buono, perché quello era un itinerario che percorrevano a decine carri e calessi civili e militari e perché era il migliore che congiungesse in più breve tempo la cittadina del Tirreno con Roma.

Dopo un avvio non troppo sostenuto, il galoppo dei quattro animali divenne regolare, ritmico. Precedeva il quartetto lo scudiere del principe, seguito da Leonardo e da Assuntina; Sebastiano, che veniva in coda, era il più attento, perché la fidanzata procedesse senza impacci e con la migliore spigliatezza possibile. Ma Assuntina, pur non conoscendo le regole che rendono brave le amazzoni, si era abituata a cavalcare fin dai primi mesi di prigionia ad Antalya, allorché lei e Selma scorrazza vano felici negli orti e sui prati della famiglia Kania su due nervosi " ponies ".
A mezzo miglio dal borgo di Nettuno, i quattro cavalieri furono presso la chiesa della Madonna del Quarto adibita a chiesa del cimitero della cittadina. Leonardo gridò allo scudiere di fermarsi!

- Voglio mandare un saluto a mia madre - disse rivolgendosi agli altri tre che si erano fermati.

- Mamma mia cara - aveva aggiunto Assuntina, rivolgendosi verso le tombe disseminate dietro là chiesa - mandami dal cielo la tua benedizione!

La sosta durò due minuti. Poi Leonardo ordinò.

- Andiamo!

La corsa delle cavalcature riprese ritmica, veloce, regolare, talché, sommandosi i rumori dei sedici zoccoli, chi ne ascoltava il galoppo pensava che il numero delle bestie fosse maggiore.

Ogni tanto al ritmico rumore degli zoccoli, facevano eco i latrati dei cani di guardia alle mandrie ed ai casolari.

Nessuno per strada: o, meglio, nessuno che si incontrasse lungo la strada; che, se qualcuno c'era, si era ben nascosto per non esser visto né investito da quel torrente che procedeva impetuoso ed invisibile nella notte quasi buia.

Non un nitrito dalle quattro bestie né una parola da quei cavalieri immersi in mille pensieri.

Era da poco passata la mezzanotte quando arrivarono alla tenuta del principe, a Campoleone.

Il guardiano, riconosciuto lo scudiere del principe, chiamò due butteri che dormivano nel cascinale, perché si mettessero a disposizione degli ospiti. Quando il vecchio guardiano si accorse che uno di loro era una giovane donna, si premurò di condurla in cucina, perché si riscaldasse un po'.

Mentre ravvivava il fuoco, i butteri presero i cavalli stanchi e ne sellarono quattro freschi. Non erano belli come gli altri quattro quanto ad aspetto, ma dovevano saper resistere ad una lunga galoppata almeno quanto gli altri quattro.
La sosta durò poco più d'un'ora.

Oltre che essersi riposati abbastanza, data la loro giovane età, i quattro cavallerizzi si erano riscaldati con una buona tazza di vino caldo con zucchero e cannella. non vi farà

- Questo - asseriva il bravo guardiano sentire né freddo né stanchezza fino a Roma.

Lo scudiere avvertì il buon uomo che quello stesso giorno, dopo pranzo, sarebbero ripassati per riprendere i cavalli lasciati; che, perciò, li strigliassero ben bene, li facessero bere e mangiare abbondantemente e li facessero riposare.

Ricevutane l'assicurazione, i quattro ripartirono al galoppo ed arrivarono a porta San Giovanni quando già i primi carri di derrate alimentari stavano entrando in città per sparpagliarsi nei vari mercatini rionali.

Le guardie di sentinella alla porta non li fermarono, cosi come non fermarono tutti quelli, ed erano tanti, che a piedi, a cavallo, in calesse, su carri agricoli entravano a quell'ora nella città dei papi, governata dalla burocrazia dell'imperatore dei Francesi.

Correre dentro Roma, in mezzo a tutte quel bailemme, era difficile, e i quattro cavalieri, affiancati due a due, procedevano a passo sostenuto e ritmico sul selciato che restituiva, moltiplicandoli, i rumori dei ferri di cavallo.

Quando entrarono nella chiesa dei Santi Apostoli, i frati stavano recitando il" mattutino ". Sebastiano, Leonardo ed Assunta avanzarono lentamente verso l'altare e si inginocchiarono per pregare.

Era la prima volta, dopo tanti anni, che provavano le gioie della preghiera in un tempio cattolico. Quella loro prima preghiera in una chiesa, a quell'ora, con tutti quei sentimenti e pensieri che si affollavano nelle loro menti, fu solo un inno di ringraziamento alla divina Provvidenza. Non chiesero nulla al Signore, che aveva dato loro già tanto: fu soltanto un atto di ringraziamento e, per Assunta, dolci lacrime di riconoscenza.

Dopo aver atteso invano che qualche religioso si fosse fatto vedere, Sebastiano si alzò, andò in sagrestia e pregò il frate sagrestano di chiamargli, per favore, don Alessandro Sguzzi.

- Don Alessandro è nel coro a recitare il " mattutino ". Fra qualche minuto sarà terminato e tu potrai recarti al suo scanno per parlargli.

Tre minuti dopo, Sebastiano passava in rassegna nel coro le teste chine in preghiera per accertarsi quale fosse quella del suo amato parroco.

Lo vide, gli si avvicinò, gli si fermò davanti aspettando che questi, interrompendo la preghiera, si accorgesse di lui. Non ebbe la forza di chiamarlo, il caro, Sebastiano... Ad un tratto Don Alessandro alzò gli occhi, fissò un istante il giovane e - Sebastiano! - esclamò con voce rauca.

- Monsignore! - disse Sebastiano.

Il buon parroco si era alzato, era corso nel corridoio circolare che si stendeva fra gli inginocchiatoi del coro ed aveva abbracciato piangendo il suo Sebastiano.

- Signore, - andava intanto ripetendo il parroco esiliato - Signore, che cosa ho mai fatto per meritare una tale gioia?

Signore, signore, come sei buono!

Poi, rivolgendosi a Sebastiano:

- Come stai, figlio mio?... Da dove vieni?

- Sono qui con Leonardo.

- Leonardo... Chi? il figlio di Giovanni?

- Sì, monsignore, con lui e con sua sorella.

- Anche la piccola Assunta è qui?... Dio misericordioso... Dio santo... Dove sono Leonardo ed Assunta?

- Sono in chiesa.

- Qui, in Santi Apostoli?

- Sì.

Don Alessandro, afferrata la mano di Sebastiano, corse con lui in chiesa e, abbracciando le teste degli altri due suoi cari giovani, scoppiò in un pianto dirotto. Sempre piangendo, il caro prete si inginocchiò pronunciando anche il suo inno di ringraziamento a Dio.

Alcuni frati avevano assistito alla scena, senza poter comprendere il perché dì quelle manifestazioni. Un conventuale si avvicinò allora a don Alessandro per chiedergli:

- Che le è accaduto, monsignore? Posso fare qualche cosa per lei?

- Sì, padre. Da solo non ce la faccio: mi aiuti a ringraziare

il Signore per la grande grazia che mi ha fatto!... Questi tre giovani che io ho pianto per tanti anni sono ora vivi e vegeti davanti a me.

- Spesso accade di rivedere le persone care dopo molti anni, padre!

- Sì, ma raramente accade di riabbracciare persone cadute tanti anni fa in mano ai maomettani!

- Gran Dio... E' mai possibile?

- Questi giovani testimoniano la bontà e la potenza del Signore!

- Che Dio li benedica... che Dio sia lodato!

Don Alessandro, fatta la genuflessione al Santissimo, condusse i tre giovani in parlatorio, dove si accordarono sul necessario e sugli accessori per unire in matrimonio i due giovani fidanzati.

Ora, la gioia di don Alessandro, dopo la commozione del primo incontro con i suoi parrocchiani ritrovati, era alle stelle e sembrava incontenibile.

Lasciati i giovani in parlatorio, dove aveva fatto portare la colazione per lo scudiere che Leonardo nel frattempo aveva chiamato, don Alessandro andò dal superiore del convento per comunicargli quanto era stato buono il Signore con lui e con i suoi parrocchiani.

La voce si era sparsa in un baleno per il convento e tutti i frati a correre per vedere i graziati dal Signore.

La cerimonia religiosa che seguì fu un'apoteosi di gioiosi canti, di inni e di gioia.

In pochi minuti tutti i vasi con fiori furono portati da ogni angolo per adornare l'altare maggiore, davanti ai cui gradini fu posto l'inginocchiatoio per gli sposi, ricoperto di raso rosso.

Ci fu la messa parata, celebrata da don Alessandro.

Per l'occasione fu cantata la " Missa de Angelis ", in canto gregoriano, una messa semplice, ma che ti rapisce, se cantata come si deve; ed i frati, la cantarono come bisognava.

Un momento commovente vissero gli sposi all'atto di ricevere l'ostia santa; per Assunta quella fu la prima comunione; per Leonardo e Sebastiano fu la prima volta che la ricevevano dopo parecchi anni.

Il " sì " di Sebastiano fu più deciso e di tono molto più forte di quello pronunciato da Assunta, ma la poveretta dovette pronunciarlo mentre piangeva per la gioia.

Don Alessandro si accingeva a dire alcune parole di circostanza, ma la commozione gli impedì di andare oltre il " Miei Figli carissimi!... ".

Testimoni del matrimonio furono Leonardo e Forcina Claudio, lo scudiero del principe, che li aveva accompagnati da Nettuno a Roma.

Alle nove, terminata la cerimonia religiosa, ebbe luogo un sontuoso rinfresco, cui parteciparono tutti i frati che avevano già detto messa. Per permettere a don Alessandro di far festa con i tre giovani più a lungo possibile, ed alle cavalcature di riposarsi di più, i nostri tre cavalieri e la giovane amazzone ripartirono per Nettuno verso le undici.

Mentre don Alessandro si intratteneva con gli sposi, Leonardo, accompagnato dallo scudiero, fece il giro dei negozi del centro di Roma per acquistare regali per il padre, per i due sposi e per tutte le persone care che aveva lasciato in Turchia.

Dopo un patetico addio a don Alessandro ed alla comunità religiosa dei Padri Conventuali, che era scesa in piazza per salutare i partenti, fu ripresa la via del ritorno.

La giornata era fredda e nuvole cariche d'acqua correvano lente e minacciose nel cielo.

- Speriamo che non ci colga l'acqua - disse Leonardo.

- La pioggia sugli sposi è segno di buon augurio - esclamò lo scudiero che gli cavalcava accanto.

Le quattro bestie avevano ripreso a trottare ed, a tratti, a galoppare con la stessa andatura della notte precedente, anche se noiosi piovaschi spruzzavano acqua gelida sulle parti scoperte del volto dei cavalieri.

Di tanto in tanto, il ritmo del galoppo veniva affievolito dall'impatto degli zoccoli con le pozzanghere sparse su di un terreno che il piovasco aveva reso melmoso; allora folate di fanghiglia schizzavano sia sulle bestie che sugli abiti fradici dei giovani.

Come a Dio piacque, i tre arrivarono alla tenuta di Campo-Icone verso le tre del pomeriggio.

I cavalli, seppure stanchi non erano sfiniti, perché, di tanto in tanto, il galoppo veniva trasformato in trotto e questo nell'andatura che si definisce " a passo ", specialmente quando la pioggia si faceva più forte e persistente e quando tutta la strada era diventata una pozzanghera.

lì tratto di strada fra Roma e Campoleone superava sì i venti chilometri, ma i generosi e nobili quadrupedi portavano cavalieri il cui peso non era troppo sensibile per bestie dai garretti d'acciaio.

Rifocillati da una calda e saporita minestra offerta dalla moglie del guardiano e riscaldati dal fuoco gagliardo che aveva anche asciugato i vestiti bagnati, i quattro ripartirono prima dell'imbrunire con i cavalli che avevano lasciato al mattino.

Benché un poco più lungo, il tratto fra Campoleone e Nettuno fu coperto con minor tempo del primo tratto a causa dell'andatura più veloce dei quadrupedi ed il desiderio di chi li cavalcava di arrivare presto.

Prima di rientrare nel castello di Nettuno, i quattro fecero sosta a Villa Bell'Aspetto, dove il principe, padre Vincenzo, un suo confratello ed il comandante del porto erano ad attenderli.

Anche se durò poco tempo, il rinfresco del principe fu un piacevole trattenimento per la gioiosa e cordialissima partecipazione degli astanti.

Negli intervalli fra i brindisi e le frasi di circostanza, il principe ed il superiore dei Padri Conventuali di Nettuno presero molti appunti, perché era loro intenzione far ritornare in Italia tutti i nostri Nettunesi attraverso le vie diplomatiche.

Rientrati al castello, Leonardo corse alla marciaronda per vedere se il brigantino era alla fonda, al posto in cui l'aveva lasciato. La sua massa nera si distingueva benino alla luce della mezza luna che di tanto in tanto filtrava fra le nuvole che si inseguivano nel cielo.

Come d'accordo, tre lanterne rosse erano state accese sulla tolda da Ali Turi. Con un'altra lanterna, Leonardo segnalò allo stesso che fra un'ora sarebbe dovuto venire a prenderlo al molo con la lancia.

Frattanto la strada antistante la casa di Berardo si era affollata di parenti e di compaesani che volevano vedere gli sposi e congratularsi con loro.

Giovanni e Berardo, felici, non si allontanavano un istante dal fianco dei loro figli e non sapevano cosa rispondere.
Sorridevano, sospiravano, tornavano a sorridere e riprendevano a guardare i loro cari, incerti se i momenti felici che stavano vivendo fossero veri o frutto d'un sogno meraviglioso.

Il giorno appresso la lancia del brigantino aveva dovuto fare tre volte la spola fra il molo e la nave per trasportare i regali che tutti i nettunesi avevano voluto offrire ai nostri giovani.

Un viaggio era stato fatto per conto del principe e della principessa che avevano regalato alla sposa l'intero corredo che, a quei tempi la sposa avrebbe dovuto portarsi. Erano coperte, materassi, cuscini, lenzuola, federe, asciugamani, fazzoletti, tovaglie e salviette di lino, di seta o di lana, a seconda dei capi.

Nel secondo viaggio la lancia fu caricata con stoviglie ed oggetti di rame, di ottone, di ferro lavorato e di vasellame vario.

Al terzo viaggio la lancia trasportò al Sàray libri, profumi, vestiti, scarpe, vino e decine e decine di oggetti sconosciuti in Turchia.

Durante l'assenza degli sposi e di Leonardo, Ali Turi e Soydan avevano provveduto a rifornire la nave di ogni ben di Dio con l'aiuto del personale del porto e di Berardo al quale molte derrate furono regalate o date a prezzo ridotto per amore dei " giovani venuti da levante ", come qualcuno li aveva chiamati.

Il distacco dei giovani dai loro padri fu uno strazio inenarrabile, e non solo per i partenti, ma per tutto il paese.

La promessa che avrebbero fatto del tutto per accelerare il loro ritorno in patria anche per la mediazione del principe e della Camera Apostolica, non valse ad arrestare i singhiozzi dei due poveri padri che chiedevano disperatamente di essere condotti in Turchia, magari in catene!... L'essere lasciati soli, dopo un'estasi meravigliosa che era durata soltanto quarantotto ore, valeva come confessare che i giovani abbandonavano al loro destino i loro vecchi genitori.

Per i tre che, dopo essersi accomiatati da tutti, salirono sulla lancia, tutta Nettuno con le sue terre, con le sue case. le sue chiese, il suo cielo, l'intero creato, si ridusse a due paia di pupille, quelle di Berardo e di Giovanni, imperlate dì pianto.

Antonio PAGLIUCA
Venerdì, 17 marzo 1978.

 



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