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I CORSARI DI
TORRE ASTURA

di Antonio Pagliuca

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17 - Vita di Sebastiano a Finike


Non erano né belli né nuovi gli ambienti della caserma che Sebastiano visitò con Nedim, ma erano puliti e ben illuminati. L'italiano, però, vide che alcuni uffici e qualche posto letto erano stati adornati con vistosi oggetti che davano l'idea dì trofei: si trattava, invece, di chincaglierie più adatte ad un salotto che ad una caserma.

Don Alessandro a Nettuno gli aveva parlato anche dei giannizzeri, del loro coraggio, ma anche delle loro stravaganze e delle loro prepotenze, per cui poteva darsi che quelle chincaglierie e cineserie, poste come trofei presso i loro letti, fossero attestati di lode o di privilegi che avevano meritato o che credevano di aver meritato.

Quando il corpo dei giannizzeri fu fondato, era costituito quasi esclusivamente da giovani catturati nelle guerre contro le popolazioni cristiane e da migliaia di giovanetti appartenenti alle famiglie cristiane dell'impero ottomano, soprattutto della Turchia europea; più tardi il corpo dei giannizzeri fu alimentato dai giovani cristiani rapiti - ed era il caso del nostro Sebastiano - o dai figli che i giannizzeri avevano avuto dalle concubine.

Benché di origine cristiana, i giannizzeri diventarono i più accaniti sostenitori dell'islamismo ed anche i soldati più ardimentosi.

Erano divisi in reggimenti, detti orta, il cui numero variava di continuo a seconda della necessità; ogni orta era comandata da un corbagi, grado che da noi corrisponderebbe più a quello di colonnello che di capitano.

In quegli anni, quando la paura di Napoleone teneva Russia ed Austria lontane dal moribondo impero ottomano, la consistenza dei giannizzeri era diminuita e l'orla di stanza a Finike, raggruppava appena novanta giannizzeri; questi, però, anche se pochi, davano grattacapi a non finire.

Le guerre napoleoniche avevano concesso alla Turchia una certa tranquillità di cui volle approfittare il sultano Selim III per riformare l'esercito e riorganizzare l'amministrazione. Dopo la riconquista dell'Egitto, la Turchia si riappacificò e mantenne buoni rapporti con la Francia i cui istruttori chiamò per riformare l'esercito e, soprattutto, il corpo dei giannizzeri. Nessuna riforma fu possibile per l'ostilità degli stessi giannizzeri che non volevano perdere i loro privilegi e che, anzi, costrinsero Selim III ad abdicare qualche anno dopo, nel 1808.

I giannizzeri vestivano a seconda della loro specializzazione in abiti di vari colori, costituiti da giubbotti lunghi fino alla vita e adorni di cordoni bianchi messi orizzontalmente; i calzoni aderivano alla coscia ed erano di colore differente dal giubbotto. In testa portavano copricapi di cui la parte aderente alla fronte era rigida e si impompava di un pennacchio alto, a due e più sezioni legate da nastri; il copricapo di qualche reparto consisteva, invece, in una specie di cuffia di lana bianca che aveva come appendice un lungo lembo che ricadeva sulle spalle.

I giannizzeri erano armati di pugnali, archibugi, lance, sciabole ed accette.

Era un corpo molto legato, al punto da essere chiamato ogiaq, cioè " focolare ". Se erano scontenti ed avevano lagnanze contro i superiori, rovesciavano la marmitta del rancio, che era il loro simbolo di coesione e di solidarietà. Titoli e gradi militari derivavano dal nome degli oggetti di cucina.

I giannizzeri divenuti inabili alle armi ricevevano una pensione, così come i loro orfani.

Nedim fece assegnare a Sebastiano la brandina all'angolo della camerata e vi trasferì vicino la propria, perché il nettunese potesse dormire tranquillo fra il muro ed il letto del temuto giannizzero.

Gli riempì con un supplemento di foglie di granturco il pagliericcio e lo aiutò a prepararsi il letto con due lenzuola di canapa.

Gli consigliò di chiudere a chiave, nel suo armadio, le due coperte di lana e gli altri oggetti pesanti per non trovarsene sprovvisto quando sarebbe arrivato il freddo.

Durante tutte quelle operazioni i due fecero esercitazioni linguistiche: Sebastiano gli sillabava in italiano il nome degli oggetti che gli capitavano sotto gli occhi e Nedim glieli ripeteva e glieli traduceva in turco; quella prima sera Sebastiano conosceva già una ventina di vocaboli turchi ed una decina di espressioni dì presentazione e di saluto.

Prima di addormentarsi aveva trascritto su di un blocchetto di carta tutte le parole e le frasi imparate.

Il timore che incuteva Nedim e la convinzione che la recluta italiana stesse a cuore al comandante ed a quel prepotente, convinse tutti gli altri a non far scherzi a Sebastiano che, se no, sarebbe diventato la vittima dì quella masnada di prepotenti.

All'ora della preghiera canonica pomeridiana, Nedim aveva condotto Sebastiano nel salone, che fungeva da moschea, già gremito di ufficiali, sottufficiali e truppa; lo aveva esortato con gestì e con le poche parole italiane che ricordava a ripetere almeno i movimenti ed i gesti degli oranti, visto che non conosceva una parola del Corano; e Sebastiano seppe così bene imitarli che, quando uscirono, Nedim gli diede una pacca sulla spalla accompagnata da un profluvio di parole che certamente volevano essere di lode.

La giornata era stata troppo piena di fatti e di circostanze favorevoli, perché, una volta in brandina, Sebastiano non si sentisse stanco e col cuore gonfio: gonfio di commozione e di sentimenti di riconoscenza verso il Padre che dal ciclo vigilava su lui.

A ripensare soltanto agli incontri favorevoli, alle buone parole che gli erano state rivolte ed alle persone che col dire e col fare gli avevano reso accettabilissimo il primo impatto con la nuova realtà, il nostro giovane non potè fare a meno di ringraziare Dio, pregandolo ancora una volta di fargli ritrovare la mamma. Alla preghiera per la mamma, il ragazzo unì quella per l'adorato papa di cui rivedeva le braccia tese verso i suoi rapitori per scongiurarli a prender prigioniero anche lui.

Quel ricordo gli aveva inumidito le ciglia: era la prima manifestazione di commozione alla quale il forte carattere del ragazzo non aveva saputo resistere!

La mattina seguente il trombettiere lo svegliò alle cinque.

Aperti gli occhi, constatò che molti giannizzeri erano già vestiti e che qualcuno stava uscendo dalla camerata bell'e pronto; avevano già fatto le abluzioni di rito per recarsi al salone-moschea per la prima preghiera del giorno.

- Merhaba, Sebastiano! - vate a dire: " buon giorno, Sebastiano ".

- Gunaydin, Nedim - gli rispose quello usando il saluto di circostanza che Nedim gli aveva insegnato il giorno prima e che voleva dire " giorno chiaro "; vale a dire, una buona giornata senza nubi in ciclo e senza preoccupazioni che possano affliggerti.

Mentre si vestivano, Sebastiano gli domandò:

- Come mai la maggior parte dei giannizzeri sono già pronti?

- Perché sono abituati ad alzarsi a quest'ora e perché l'ultimo a presentarsi alla preghiera viene sempre punito! Ti ho avvertito!

- Grazie: cercherò di non essere mai l'ultimo!

Scesi in cortile, Nedim ed i camerati si salutavano alla maniera turca scambiandosi il baciamano, o premendosi spalla contro spalla o accarezzandosi come da noi fanno i fidanzati.

Nessun maomettano avrebbe allora fatto così con la propria moglie, perché allora, salvo rare eccezioni, non esisteva amore fra moglie e marito, perché l'uomo considerava la donna - quindi, anche la propria moglie - un essere immondo, cattivo, traditore, falso!

Poverette le donne maomettane di quei tempi! Ma, siatene certi, quelle ripagavano i mariti con pari moneta!

Dopo aver sorbito metà razione di caffè inzuppandovi un pezzo di pane, Sebastiano corse con Nedim in piazza d'armi.

Riuscì molto bene nelle esercitazioni ginnico-sportive ed in quelle prettamente militari, perché ad un fisico forte e scattante accoppiava una provata intelligenza. L'uomo intelligente - se vuole - riesce a far presto e bene ciò che gli altri imparano a fare dopo un lungo tirocinio.

Dopo la ginnastica, i soldati analfabeti o semianalfabeti erano costretti a frequentare, in un'aula della caserma, le lezioni di lingua turca impartite da un sergente dai mustacchi spioventi che agli allievi insegnava parole e parolacce, persino quando parlava del Profeta.

Poiché Sebastiano era considerato un analfabeta - almeno per quanto riguarda la lingua turca - fu costretto a sedere col gruppo degli " zucconi ", di quelli, cioè, che avrebbero sollevato molto più facilmente un affusto di cannone, che una penna. Vi restò poco in quel gruppo: il tempo necessario per apprendere l'ortografia e la fonetica; dopodiché entrò, a vele spiegate, nel secondo gruppo. Anche qui restò poco tempo per i portentosi progressi che faceva.

Dopo due mesi di scuola sapeva leggere e scrivere correntemente!

Le ore trascorse sui banchi di scuola ebbero per lui un valore che potremmo definire puramente teorico, poiché, in pratica, ogni momento, ogni occasione gli offriva spunti di esercitazione linguistica.

Dopo solo otto mesi di permanenza a Finike, se lo contendevano tutti. A lui si andava per consigli, per far redigere petizioni, domande di trasferimento e per i conti.

Per tutte queste buone ragioni, corbagi Mahmut Belgin gli abbreviò di parecchio il periodo di leva, che sarebbe dovuto durare due anni. Lo proclamò " giannizzero " effettivo, in piazza d'armi, di fronte a tutto il reggimento, che gridò in coro tre portentosi " Urrah! " all'indirizzo del nostro Sebastiano, visibilmente commosso.

Il comandante lo elogiò di fronte a tutti, additandolo ad esempio, e Nedim, gongolante di gioia, abbracciò il suo allievo con trasporto!

Anche lui, per l'insistenza di Sebastiano, aveva fatto sensibili progressi in italiano, cosicché i due si esprimevano nella nostra lingua quando volevano che gli altri non li comprendessero.

L'anno trascorso insieme e l'impegno posto dai due nell'aiutarsi reciprocamente, avevano provocato impercettibilmente una fraterna alleanza che li univa nel bene e nel male. Della coppia, Nedim costituiva il braccio, Sebastiano la mente.

La vita in comune, l'esempio, le spiegazioni, l'amicizia profonda, quella capace di smussare le angolosità di carattere ed i vizi acquisiti, ingentilirono l'animo ed il cuore del più anziano che ormai considerava Sebastiano il suo fratello minore.

Sebastiano, però, non si era montato la testa per la stima di cui era circondato, ad incominciare da quella del comandante, ma poneva la massima accortezza e prudenza nei suoi rapporti con gli altri: aveva saputo conquistare così bene l'amicizia di tutti, che era chiamato sempre lui a sedare inimicizie, incomprensioni e litigi.

Ormai andava in libera uscita con o senza gli altri ed aveva fatto un mucchio di conoscenze nei pubblici locali ed anche presso le famiglie dei commilitoni.

Un buon numero di conoscenze se le era procurate col frequentare la moschea il venerdì, durante la preghiera più importante della settimana.

Poiché con gli altri era costretto a partecipare al rito della preghiera canonica con regolarità, a nessuno venne mai in mente di domandargli se credesse o no nell'islamismo.

Da quando era stato fatto prigioniero, al dolore di saper la madre schiava, si sommava quello non meno profondo per il padre che aveva lasciato solo a Nettuno. " Povero papa mio - si diceva - quanto dovrà soffrire!... Prima gli portano via la moglie, poi gli rapiscono me... ".

Dei tre infelici, non si sapeva bene chi soffrisse di più: tutti e tre avevano motivo di piangere per la perdita degli altri due amatissimi: Teresa piangeva la perdita del figlio e del marito; a Sebastiano mancavano padre e madre; Berardo piangeva moglie e figlio!

Difficilmente ad una famiglia potrebbe capitare una simile disgrazia! Tutti e tre non avevano ceduto, però, allo sconforto, alla disperazione la quale conduce sempre a passi falsi ed a gesti insani, ma si erano affidati alla Divina Provvidenza, la sola che potesse avviare a felice soluzione le combinazioni più scombinate.

Il povero Berardo viveva solo in casa sforzandosi di non trascurare né la casa, né il podere, né gli animali.

Come succede in questo mondo, per le disgrazie che si erano abbattute sulle sue povere spalle, gli amici gli diventarono più amici ed i parenti si erano fatti meno invidiosi e più accessibili: infatti, non c'era domenica od altra occasione propizia, perché parenti ed amici non facessero a gara per tenerlo a pranzo o a cena.

L'aiutavano nei lavori, lo sostituivano quando altro impegno Io voleva altrove e le comari gli rassettavano la casa dopo che lui era uscito per recarsi nei campi.

Don Alessandro, ogni volta che passava davanti a casa sua, bussava alla sua porta per chiedergli come stesse e non mancava di invitarlo, a sera, presso di lui con una scusa qualsiasi non tanto per consolarlo quanto per rinvigorire in lui la certezza che Sebastiano avrebbe dato prima o dopo notizie di sé e della mamma; e Berardo viveva nell'attesa della iella notizia... Ma erano trascorsi già troppi anni da quando gli avevano rapito la moglie e parecchi mesi da quando anche il suo Sebastiano era caduto nelle mani dei predoni turchi!

 



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