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MILLECINQUECENTO

Marcantonio Colonna
e l'antico Statuto di Nettuno

a cura di
BENEDETTO LA PADULA
e
VINCENZO MONTI

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16 - LEPANTO (DALL'ALBA AL TRAMONTO)
MASSIMO IACOPI


La mattina del 7 ottobre 1571 la flotta della Lega cristiana avvista i legni turchi. Alle ore 12.00 le galee di Ali Pascià si gettano all'arrembaggio delle navi di don Giovanni d'Austria. Al tramonto, dopo prodigi di valore da ambo le parti, la battaglia è vinta da parte della Lega Santa. Per la prima volta l'espansione ottomana nel Mediterraneo viene arrestata.

 

La Lega Santa

II 20 maggio 1571 viene firmata la Lega Santa contro i Turchi. Vi aderiscono il Regno di Spagna, la Repubblica di Venezia, lo Stato Pontificio, le Repubbliche di Genova e di Lucca, i Cavalieri di Malta, i Farnese di Parma, i Gonzaga di Mantova, gli Estensi di Ferrara, i Della Rovere di Urbino, il Duca di Savoia, il Granduca di Toscana. Le spese vengono divise in sei parti: tre a carico della Spagna, due di Venezia e una del papa. La Lega era stata fermamente voluta da Pio V, Michele Ghislieri, nato ad Alessandria nel 1504, povero pastore di pecore, frate domenicano, inquisitore. Divenuto papa nel 1566, egli imposta la sua azione ad una rigorosa riforma della Curia e della città di Roma, combattendo l'eresia protestante in tutta Europa.

 

Forze in campo

La flotta della Lega Santa risulta costituita da:
- Repubblica di Venezia: 114 galee sottili; 54 con equipaggi provenienti da Venezia, 30 da Creta, 7 dalle Isole Ionie, 8 dalla Dalmazia, 15 da città di terraferma ed altri. Agli ordini dell'Ammiraglio in Capo

Sebastiano Venier, imbarcato su una galea bastarda, la "Capitana", e del Provveditore Generale della Flotta Agostino Barbarigo;
- Repubblica di Venezia: 6 galeazze, agli ordini dell'ammiraglio Francesco Duodo, alle dipendenze del Venier;
- Regno di Spagna: 36 galee, sotto il comando spagnolo, con equipaggi di Napoli (19 galee) e di Sicilia. Il Comandante in Capo è don Giovanni d'Austria, che alza le sue insegne sulla "Reale";
- Regno di Spagna: 22 galee, sotto il comando spagnolo, con equipaggi di Genova; si trattava di 10 galee prese a nolo dal finanziere Gian Andrea Doria, nipote di Andrea Doria; 3 galee della Repubblica di Genova, agli ordini di Ettore Spinola, con a bordo il Farnese; 6 galee noleggiate ed armate da imprenditori genovesi (Nicolo Doria, Grimaldi Imperiali ecc.); 3 galee (Piemontese, Margarita e Duchessa) del Ducato di Savoia, agli ordini di Provana di Leynì.
- Granducato di Toscana: 12 galee mandate da Cosimo I dei Medici, armate ed equipaggiate dai Cavalieri dell'ordine pisano di Santo Stefano;
- Stato della Chiesa: 12 galee, concesse dai veneziani allo Stato Pontificio ed armate ed equipaggiate a spese del papa, agli ordini dell'ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna;
- Malta: 3 galee dei Cavalieri di Malta, agli ordini del Priore Pietro Giustiniani, inquadrate nella flotta spagnola.
In totale 205, tra galee e galeazze, di cui 168 provenienti da stati del territorio italiano, oltre ad una trentina di fregate e navi ausiliarie minori.

La truppa è costituita da circa 30 mila uomini così suddivisi:
- 20.000 soldati a spese della Spagna;
- 5.000 militari al soldo di Venezia;
- 2.000 soldati pagati dallo Stato Pontificio;
- 3.000 volontari provenienti da tutta la Cristianità.

La flotta turca risulta costituita da:
221 galee, di cui 190 dell'Impero ottomano, agli ordini di Mehemet Alì Sadi Pashà e del suo vice Mehemet Sciaurak Pashà detto Scirocco; 7 del Dey di Algeri e 24 dei Pirati Barbareschi, al comando del Dey Ulug (Ulij) Alì detto Occialli o Occhiali, un rinnegato cristiano di origine calabrese, tale Luca Giovanni Dionigi Galeni (1520-95). Tutti i capi sono marinai esperti competenti e valorosi. Fra questi spiccano per la loro professionalità Perteù Pashà, Hassan Pashà (figlio del Barbarossa) e Kara Pashà.
38 Galeotte o Galerotte;
21 Fuste.
In totale sono 280 navi da battaglia oltre a numerose imbarcazioni minori ausiliarie.

La truppa è costituita da circa 26 mila uomini così suddivisi:
- 15.000 giannizzeri, di cui 10 mila imbarcati da poco tempo;
- 11.000 soldati di altra provenienza.

La situazione degli uomini imbarcati sulle navi turche è sostanzialmente equivalente a quella della Lega Santa per quanto attiene agli equipaggi (13,000) ed ai rematori (40.000), con la sola differenza, peraltro fondamentale, che la stragrande maggioranza dei vogatori del campo ottomano è rappresentata da forzati o da schiavi e, fra questi, circa il 50% è costituito da schiavi cristiani, di cui circa 10 mila frutto delle recenti razzie a Creta (3 mila) e nelle isole dell'arcipelago di Cefalonia (7 mila). In termini di armamento la flotta turca ha una disponibilità di circa 3000 archibugi, una nutrita schiera di arcieri e solamente 750 cannoni.

In definitiva i Turchi risultano superiori in termini di navi, equivalenti in numero e qualità di capi e di soldati. Essi sono sostanzialmente equivalenti in numero di vogatori, ma inferiori nel numero di archibugi e fortemente carenti in termini di artiglierie. Un altro elemento di vulnerabilità per i Turchi è dato dalla composizione dalla ciurma ai remi che, costituita solo da forzati e per lo più cristiani, risulta essere infida e persino inaffidabile nei momenti critici. La situazione dei vogatori della Lega Santa è decisamente più omogenea e gli arruolati ed i volontari ai remi, di gran lunga la maggioranza, non di rado partecipano attivamente al combattimento.

 

Prima della battaglia

Sulla base degli accordi stipulati, la flotta cristiana effettua la sua radunata nel porto di Messina dal 20 luglio 1571, con l'arrivo della componente pontifica di Marcantonio Colonna. Il 23 agosto seguente giunge a Messina Don Juan d'Austria, che assume ufficialmente il comando e la radunata si completa il 10 settembre successivo, con l'arrivo della seconda parte della flotta veneziana. La flotta così riunita salpa il 16 settembre dirigendosi verso Corfù e, dopo uno spostamento verso Igoumenitza, sulla costa albanese, il 4 ottobre seguente giunge in prossimità di Itaca, nell'arcipelago di Cefalonia. Le navi esploratrici confermano che la flotta turca si trova riunita nei pressi del golfo di Lepanto. Il 5 ottobre la flotta cristiana giunge nel porto di Viscando o Fiscardo, non lontano dal luogo della battaglia di Azio, ma le condizioni meteo, forte vento e nebbia, non permettono di proseguire. Finalmente migliorate le condizioni del mare la flotta della Lega riprende il mare nella notte del 5 ottobre e muove, divisa in tre squadre, alla volta del golfo di Patrasso, per andare incontro ai turchi e costringerli alla lotta, prima che la cattiva stagione impedisca la condotta delle operazioni e le faccia rimandare alla primavera seguente.

I Turchi, che nel frattempo avevano recuperato parte della loro flotta, di ritorno da Cipro a Creta, dove avevano imbarcato 10 mila giannizzeri e si erano dati ad effettuare scorrerie e razzie nell'Adriatico, decidono, davanti alla minaccia cristiana, di effettuare la radunata nel golfo di Patrasso e più precisamente nella piccola insenatura di Naupaktos (Lepanto), protetta dalle isole Curzolari.

All'alba del 7 ottobre 1571, in una serena giornata di primo autunno, i cristiani sono ormai giunti in vista delle Curzolari. Manovrando controvento, contro una lieve brezza da oriente, avanza a forza di remi la più imponente flotta di galee che la cristianità è stata mai in grado di riunire per dar battaglia ai turchi. E, proprio quando il sole comincia a spuntare sullo Ionio, le avanguardie della Lega danno il segnale di navi che avanzano in senso opposto. Si tratta infatti proprio della flotta ottomana al comando di Alì Pascià che, lasciata Lepanto, sta avanzando con tutte le forze che la compongono, circa 280 navi, nella speranza di prendere il largo prima che la flotta nemica glielo impedisca. Ma ormai è tardi, la flotta della Lega blocca l'uscita del golfo e ha inizio la grande giornata di Lepanto. Lo scontro assume le tipiche caratteristiche di un combattimento d'incontro nel canale fra le isole Curzolari a sud e la costa greca a nord, al quale i Turchi non possono ormai sottrarsi.

 

La battaglia

Nella battaglia di Lepanto l'azione preliminare della galeazze ha la funzione di infliggere danni e primariamente di scompaginare lo schieramento nemico con il fuoco di prora, ma soprattutto con la devastante potenza di fuoco dei fianchi. La galeazze saranno uno degli elementi decisivi per il successo della giornata.

Il combattimento si frammenta in una miriade di combattimenti locali. Le murate laterali vengono arpionate in modo da accostare stabilmente la nave per l'arrembaggio.

Fuoco delle bombardelle e degli archibugieri, che spazzano il ponte ed il castello nemico, accompagnato a breve distanza dal lancio di pignatte incendiarie, calce viva in polvere, granate a mano e completato dall'azione delle balestre o degli arcieri per i Turchi.

Arrembaggio e combattimento a corpo a corpo con pistole ed armi bianche (spade, picche, alabarde, lance, mazze ferrate), fino alla conquista della nave nemica, che viene occupata o rimorchiata. Il ponte ed il rembate vengono, per motivi di difesa, abbondantemente cosparsi di grasso per rendere più difficoltoso l'assalto nemico. In definitiva, tutto meno che la tradizionale oleografia delle bordate di artiglieria dei film sulle battaglie navali dei secoli successivi. La chiave dello scontro, piuttosto che nel duello di artiglierie, risiede nell'incendiare la nave avversaria, nell'affondarla con lo sperone o nel conquistarla con l'arrembaggio.

L'ala sinistra della Lega, al comando del veneziano Agostino Barbarigo, poggia verso la vicina costa etolica in modo da chiudere il mare alle galee nemiche che volessero compiere un tentativo di aggiramento da quella parte; l'ala destra, al comando del genovese Giannandrea Doria, si allunga verso sud per lasciare modo al centro di disporsi anch'esso su una linea.

La manovra, un po' perché eseguita con vento contrario, un pò per il nervosismo dei capitani di galea, troppo desiderosi di raggiungere rapidamente il proprio posto, si effettua nel più assoluto silenzio, ma con alcuni sbandamenti, tanto che Don Giovanni si lascia andare a qualche "santa imprecazione", come riferisce un cronista.

Intanto, anche i turchi procedono a formare il loro schieramento.

La grande giornata di Lepanto è iniziata.

Mentre la squadra della Lega si sta assestando, Don Giovanni sembra colto da un dubbio; sale su un'imbarcazione veloce, si fa portare sotto la galea di Sebastiano Venier e chiede al vecchio ammiraglio: "Che si combatta?". Venier risponde: "E necessità et non si può far di manco". Don Giovanni, allora, in armatura e con un Crocifisso in mano passa in rassegna l'armata, ritto a prua dell'imbarcazione, esortandola al combattimento e promettendo la libertà ai rematori condannati al remo per delitti civili, se faranno bene il loro dovere. Poi' torna alla galea Reale, mentre Francesco Duodo, capitano delle sei galeazze, fa rimorchiare le proprie navi al posto loro assegnato, e cioè davanti alle tre squadre, due per ciascuna squadra.

Quando le flotte giungono a tiro di cannone, è ormai mezzogiorno ed i Cristiani ammainano, come previsto tutte le loro bandiere, mentre Giovanni d'Austria innalza lo stendardo con l'immagine del Redentore crocifisso. Una croce viene levata su ogni galea e i combattenti ricevono l'assoluzione, secondo l'indulgenza concessa da Pio V per la crociata. Si approntano le armi per i soldati e i marinai, si distribuiscono corazzette ed elmi anche ai vogatori e si pongono a portata delle loro mani spade, spadoni, mazze ferrate, accette, picche, alabarde: quelle braccia rese d'acciaio dall'esercizio del remo sapranno far buon uso di tali armi nel momento cruciale della lotta, quando si arriverà al corpo a corpo.

Il sole è ormai alto, quando Don Giovanni fa innalzare sulla Reale lo stendardo della Lega su cui, in campo cremisi, spicca ricamato il Cristo in croce. Proprio in quei minuti che precedono il combattimento il vento, che fino ad allora aveva spirato in favore degli ottomani, cade, e sul mare si stende una calma perfetta. Il vento improvvisamente cambia direzione. Le vele dei Turchi si afflosciano e quelle dei cristiani si gonfiano. Il nemico è privato di un elemento a proprio favore.

Inginocchiati sul ponte, soldati, marinai e ufficiali, da Don Giovanni d'Austria al più umile mozzo, recitano una preghiera e sono benedetti dal frate cappuccino che è su ogni galea. E ormai mezzogiorno e le flotte sono quasi a tiro di cannone. Don Giovanni ordina ai pifferi di suonare e sul ponte di prua balla insieme a due gentiluomini del suo seguito la "gagliarda", danza di corte e di guerra.

Alì Pascià, intanto, ha fatto ammainare le vele alle galee del suo schieramento e, dato ordine di non sopravanzare la sua ammiraglia, fa vogare di lena contro i cristiani. Sibilano le fruste degli aguzzini sulle schiene dei galeotti. E ognuno, madido di sudore, attende con terrore il momento in cui cominceranno a tuonare le artiglierie, e quello, fatale, del cozzo contro la nave avversaria.

A un tratto, tuona il cannone di prua della ammiraglia ottomana. Ai due lati dello schieramento turco rispondono i cannoni delle galee capitane di Scirocco e di Ulug Alì. È il segnale dell'assalto. Dalla Reale cristiana si spara un colpo col pezzo di prua verso la capitana di Alì Pascià. Ala destra e centro turchi sono perfettamente a fronte, con forze pressoché pari, all'ala sinistra e al centro cristiani.

Sulla sinistra ottomana, invece, Ulug Alì sta ancora manovrando al largo, e come lui manovra, per sorvegliarlo, la squadra di Giannandrea Boria. Questi, infatti, attende le mosse del nemico prima di affrontarlo, poiché ha un numero eccessivamente inferiore di galee da opporgli.

La voga dei turchi al centro e all'ala destra si fa frenetica. Le grida si moltiplicano. Le galee della Lega attendono immobili. Ma prima di giungere sulla flotta cristiana occorre superare le galeazze in posizione avanzata rispetto alla linea di battaglia. E le galeazze non mancano al loro compito, che è quello di scompaginare lo schieramento turco. Appena il nemico è a tiro, i cannoni di prua sparano una prima scarica. Vi è un attimo di esitazione da parte ottomana. Ma Alì Pascià ordina alla sua ammiraglia di procedere. Ecco, le galeazze sono vicinissime. Si spara contro di loro con gli archibugi e con l'artiglieria pesante. Nembi di frecce sono lanciate dagli abilissimi arcieri turchi contro quegli strani castelli marini. Le galee turche stanno ormai defilando tra i varchi tra galeazza e galeazza quando tuonano le petriere dalla fiancata e decine di proiettili cadono sui ponti turchi, infrangono tolde, squarciano, affondano. La scarica del tutto inaspettata scompagina lo schieramento. Alcuni vascelli turchi si inabissano, trascinando con sé i miseri rematori incatenati al remo, e riempiendo lo specchio d'acqua circostante di naufraghi fatti subito segno a tiri di archibugio. Nel corso della battaglia di Lepanto i Turchi cercano di effettuare due aggiramenti, uno a destra e uno a sinistra. Inizialmente con Scirocco sull'ala sinistra cristiana, parzialmente riuscito, poi con Ulug Alì sull'ala destra della Lega verso le isole Curzolari, sventato dal Doria.

 

Combattimento del centro dello schieramento

Le galee turche, però, sia pure in disordine, continuano ad avanzare e, finalmente, le galeazze sono superate. Subita un'ultima scarica dei pezzi di poppa del nemico, le forze ottomane si dirigono a gruppi contro l'ancora ordinatissimo schieramento cristiano. Alì Pascià ha individuato nel centro la Reale di Bon Giovanni d'Austria, ai cui fianchi sono le altre due capitane: la pontificia di Marco Antonio Colonna e la galea bastarda veneziana di Sebastiano Venier. Beciso ad attaccare l'ammiraglia cristiana, Alì Pascià incarica la vicina galea di Perteu Pascià di lanciarsi su quella del Colonna.

Don Giovanni, intanto, osserva le mosse del nemico. Fin da quando è stata presa la decisione di combattere, ha fatto togliere lo sperone della sua galea per facilitare l'arrembaggio. Bai ponte di poppa egli vede sotto di sé i suoi uomini ben schierati e pronti alla grande prova. A prua i cannonieri attendono l'ordine della scarica a distanza ravvicinata. Lungo i fianchi, a prora e a poppa si affollano i quattrocento archibugieri del "Tercio" di Sardegna: italiani che combattono sotto bandiera spagnola. Gli occhi al nemico, essi soffiano sulle micce degli archibugi perché la bragia sia ben viva quando arriverà il comando di fuoco. Arrampicati sulle sartie e aggrappati agli alberi, marinai e altri soldati sono pronti a gettare sulla nave avversaria pignatte incendiarie, calce viva in polvere, granate a mano. Tra i banchi di voga molti sono i galeotti cristiani condannati al remo che sono stati liberati dalle catene perché possano riguadagnarsi la libertà combattendo. Infine qua e là per tutta la nave vi sono ceste di viveri e barili d'acqua e di vino "per ristorar et invigorir le forze del corpo".

Ormai le galee cristiane del centro e dell'ala sinistra hanno stabilito i contatti col nemico e fra grida, fragore d'armi, sibili di frecce, si combatte in più punti accanitamente. Don Giovanni d'Austria individuata l'ammiraglia ottomana, punta diritto contro la Sultana.

A distanza ravvicinata, le artiglierie turche e cristiane sparano quasi contemporaneamente. Poi il cozzo e, mentre i marinai e i mozzi lanciano i grappini d'arrembaggio per tener unite le due navi, si ha il primo assalto della milizia scelta di Alì Pascià: quattrocento giannizzeri che si riversano sulla prora della Reale di Spagna.

Ma l'assalto è contenuto dal "Tercio" dei sardi che, scaricati gli archibugi, danno di piglio alla spada e alle picche affrontando il nemico in corpo a corpo furibondi.

Marco Antonio Colonna, intanto, intuendo che la galea di Perteu Pascià tenta di tagliargli la strada per impedirgli di porgere aiuto alla sua capitana, fa affrettare la vogata e riesce a investire sul fianco destro, verso prua, la Reale ottomana. Subito, però, la sua galea è a sua volta arrembata da quella di Perteu, che le piomba addosso nel centro, sfondando parte della rembata. Costretto a difendersi da Perteu, Colonna non può quindi inviare uomini in aiuto a Don Giovanni.

Sebastiano Venier, allora, che è sulla destra della Reale di Spagna dirige verso di quella. Ma ecco che si attua lo stratagemma di Alì Pascià. Da un gruppo di galee ottomane davanti alle quali la capitana veneta sta passando a tutta voga, si stacca una piccola galeotta disarmata che velocissima si pone sulla rotta della galea cristiana e si incunea di striscio sotto i banchi dei rematori impedendo la vogata ai remi. La galea di Venier, sia pure momentaneamente, è immobilizzata.

Frattanto, sulla Reale di Don Giovanni il "Tercio" di Sardegna al comando di Lopez de Figueroa è riuscito a contenere l'assalto dei giannizzeri e passa al contrattacco. Il reggimento da l'arrembaggio alla nave turca che diviene il campo di battaglia e il nemico è spinto fino all'albero maestro. Ma Ali riceve continui rinforzi da galee e galeotte. Si rinnova quindi l'assalto turco e il "Tercio" è respinto sulla Reale di Spagna. Attacchi e contrattacchi si succedono, mentre Don Giovanni comincia a ricevere aiuti da altre galee cristiane Gli arcieri turchi, abilissimi nell'uso del loro corto arco a doppia curva, lanciano frecce su frecce. Dalla Reale si risponde a colpi di archibugio e, quando è possibile usare i pezzi, con la mitraglia delle bombardelle (i cannoni erano caricati con pezzi di piombo, rottami di ferro, catene) che apre vuoti paurosi tra le file avversarie.

Intanto Venier è riuscito a liberarsi della galeotta, e investe la Reale ottomana all'altezza dell'albero maestro. Ora l'ammiraglia veneziana potrebbe lanciare un attacco decisivo contro il vascello del comandante turco, ma non può perché è a sua volta attaccata da altre galee e poi da quella di Perteu Pascià, che si è distaccata da quella del Colonna proprio con l'intento di bloccare la capitana veneta. Sebastiano Venier, da esperto uomo d'arme, divide i compiti sulla sua galea: mentre parte degli uomini si oppone all'attacco turco, un nutrito numero di archibugieri comincia a battere con un tiro fitto e preciso il ponte della Reale ottomana impedendo l'afflusso di nuovi combattenti verso la prua congiunta alla galea di Don Giovanni.

Con accanto il giovane nipote Lorenzo Venier, Sebastiano percorre in "corazza all'antica e in pianelle" la corsia centrale della galea rincuorando i combattenti, incitandoli, dirigendo l'azione dove più si rende necessario. E, poiché la tarda età gli impedisce di usare la spada, non di meno partecipa anch'egli direttamente al combattimento, lanciando palle di ferro con una balestra pallottoliera che un servente gli ricarica prestamente dopo ogni tiro. Neppure quando riceve una ferita a una gamba, Sebastiano Venier si ritira.

Ma la Reale turca è ormai stretta in una morsa. Battuta dai tiri di archibugio e d'artiglieria degli uomini di Sebastiano Venier, assalita anche dagli uomini del Colonna liberatisi dai nemici che li avevano arrembati, ha ormai la sorte segnata. Al terzo assalto I soldati sardi giungono fino al castello di poppa dove, dietro a una barricata di materassi, i giannizzeri fanno una disperata resistenza. Cade lo stendardo turco, ma gli ottomani non cessano dal combattere. Filippo Venier, allora, dalla capitana veneta, fa sparare un colpo di petriera caricata con pezzi di ferro e catene: la micidiale mitraglia spazza letteralmente via la barricata e gli uomini che vi sono dietro. Un ultimo assalto dei cristiani pone fine alla lotta: lo stesso Alì Pascià è ucciso, si dice, da due colpi di archibugio. La sua testa tagliata è issata su una picca, feroce segno di vittoria esposto alla vista di turchi e cristiani.

Poco prima, anche la galea di Perteu Pascià era stata conquistata, ma il capitano turco era riuscito a salvarsi su una barchetta insieme a un rinnegato bolognese, che passando tra le navi della Lega gridava in italiano: "Non tirate che anco noi siamo cristiani". Alle due del pomeriggio, Giovanni può riprendere il controllo della flotta.

 

Lo scontro dell'ala sinistra cristiana

Mentre al centro la battaglia è accanita intorno alle due ammiraglie, anche all'ala sinistra, comandata da Agostino Barbarigo, la lotta divampa. Il turco Scirocco ha anzi tentato da quella parte di aggirare l'ala cristiana formata in massima parte da galee veneziane. Spintosi verso riva, egli è riuscito a trovare un passaggio tra i bassifondi del fiume Acheloo, e vi è penetrato con le sue galee per cogliere di fianco i cristiani. Il Barbarigo riesce però a evitare l'aggiramento intervenendo prontamente. Ma la lotta è impari. Otto sono le galee abbarbicate a quella del Barbarigo. Sette assalgono, invece, quella di Marino Contarini, nipote del Barbarigo, che per primo è giunto nel punto in cui le forze ottomane stanno uscendo dal passaggio tra le secche. E, in attesa di soccorsi, è giocoforza difendersi ferocemente. Sui due vascelli, soldati, marinai e rematori compiono prodigi di coraggio. La galea di Vincenzo Querini giunge in soccorso del Contarini. Le sorti della battaglia in quel punto si fanno meno pericolose, anche se tra i caduti vi sono i due capitani delle galee venete. Per due ore la lotta procede feroce; poi i turchi decidono di separare le due galee per poterle meglio assalire. A questo punto accade l'imprevisto. Gli schiavi cristiani incatenati al remo sui vascelli turchi riescono a liberarsi. Centinaia di uomini attaccano alle spalle gli ottomani chi con armi tolte ai caduti, chi roteando catene, chi addirittura a mani nude. Saranno loro a decidere le sorti dello scontro in questo settore.

In breve, cinque galee turche sono in mano dei cristiani. I galeotti passano a fil di spada ogni turco caduto nelle loro mani. Poi si mettono al remo perché si possa correre in aiuto al Barbarigo, la cui galea, insieme ad altre sette ottomane, è pressata anche da quella dello stesso Scirocco.

Nel frattempo, Barbarigo ha avuto aiuto dal provveditore e si è aggiunto alla capitana con la sua galea dopo aver semidistrutto un vascello nemico. Canale si batte in prima linea con i suoi uomini. Per meglio usare la spada, ha lasciato l'armatura e indossato una veste imbottita e calzato scarpe di corda per non scivolare sui ponti nemici cosparsi di sego. La sua galea ha speronato quella di Scirocco aprendo nella sua fiancata una falla. Quando il vascello veneziano è a sua volta investito da un nemico, l'urto fa sì che si scosti dalla galea di Scirocco, che comincia ad affondare. La partita per il capitano turco è ormai perduta, anche perché sopraggiungono altre galee veneziane in soccorso. Scirocco si lancia in acqua e nuota verso la riva. Per sua sfortuna è scorto dagli schiavi liberati che affollano una galea cristiana sopravveniente e, pescato letteralmente dall'acqua, viene subito decapitato.

Quasi nello stesso tempo, Agostino Barbarigo riceve una frecciata in un occhio, e deve essere ricoverato al coperto. Vivrà ancora due giorni soltanto. Sulla sua galea il comando è assunto da Federico Nani. E si continua a combattere.

 

Avvenimenti sull'ala destra

All'ala destra Ulug Alì e Gian Andrea Boria manovrano per trovarsi in posizione di vantaggio. Sia il Boria che Ulug Alì, prima della battaglia, avevano tentato di dissuadere i loro comandanti dal dare battaglia. Nessuno dei due voleva mettere a rischio le proprie navi.

Giannandrea Boria portatesi troppo al largo per sorvegliare le mosse di Ulug Alì, finisce col lasciar aperto un pericoloso varco fra l'ala destra ed il centro dello schieramento cristiano. Giovanni d'Austria ordina immediatamente al Boria di ricompattare lo schieramento, ma Ulug Alì è estremamente veloce ad infilarsi nel varco con buona parte delle sue galee corsare e riesce ad arrembare una quindicina di galee cristiane che si trovano sulla sua rotta. Favorito ora dal vento in poppa, Ulug Alì, che verrà ferito sette volte nel corso della giornata, attacca alle spalle con sette galee la nave ammiraglia delle galee di Malta, e in una lotta tanto rapida quanto feroce, la conquistano, catturando il vessillo dei Cavalieri di Malta e uccidendo quanti trovano a bordo. Tre soli uomini sopravvivono, perché creduti morti. Tra questi il Giustiniani, benché trapassato da cinque frecce.

È ormai il tramonto. Il Centro della Lega ha il sopravvento sull'omologo turco ed al grido di vittoria del centro, risponde quello dell'ala sinistra cristiana che, benché provatissima, è riuscita anch'essa ad aver ragione del nemico. La più grande battaglia di galee che la storia ricordi è finita e i Turchi sono stati completamente sconfitti. I pochi superstiti si ritirano verso l'interno del golfo di Corinto.

La flotta vittoriosa invece, per sfuggire ad una imminente tempesta, si rifugia nel porto di Petala; il consiglio di guerra della Lega, constatato che non è possibile tentare altre imprese per la stagione inoltrata e per le condizioni delle navi, stabilisce, quindi, di far vela verso ponente e, il 10 ottobre 1571, la flotta entra nel porto di Santa Maura, e quindi si porta a Messina. Qui viene fatta la divisione delle spoglie e a Venezia toccano ventisette galee ed altre navi minori, sessantadue cannoni tra grossi e piccoli e milleduecento schiavi.

 

Conclusione

L'annuncio della sconfitta produsse grande esultanza nel mondo cristiano ed ovviamente grandissima costernazione a Costantinopoli. Si dice che il Sultano Selim rimanesse tre giorni senza prender cibo; però il Gran Visir Mehemet Sokolli non rimase scosso dalla disfatta e al Legato veneto Barbaro disse: "Lepanto ci ha solamente tagliata la barba; essa crescerà più folta di prima; Venezia con Cipro ha perso un braccio e questo non cresce più". L'unico a gioire davvero della "grande vittoria cristiana" e a darsi diplomaticamente da fare affinché gli europei insieme assalissero Istanbul fu l'avversario storico del sultano, lo shah di Persia Tahmasp, musulmano come il suo nemico (ma sciita). La battaglia di Lepanto fu certamente una straordinaria vittoria tattica, ma non ci fu quello che normalmente avviene dopo una grande evento militare, l'immediato sfruttamento del successo. Da un punto di vista merceologico la stagione era ormai avanzata ed ogni operazione doveva essere rimandata alla primavera seguente. Ma la Lega Santa non aveva al suo interno forze residue e soprattutto motivazioni per rimanere unita. I due principali alleati della Lega, la Spagna e Venezia avevano due politiche ed interessi nettamente divergenti. Alla prima interessava il completo controllo del Mediterraneo occidentale, mentre per la seconda era vitale continuare a mantenere i possedimenti nel Mediterraneo orientale e le relative rotte. Di fatto, morto papa Pio V, la Lega Santa si sciolse come neve al sole e i Veneziani, che tanto avevano sperato da questa vittoria, decisero di venire a patti coi Turchi, così come farà anche Filippo II.

Questa vittoria mutilata per lungo tempo fu oggetto di discussioni ed anche di malevoli critiche, alimentate nel campo cristiano specialmente dalla Francia, ma in realtà Lepanto segna il tramonto dei sogni ottomani del controllo del Mediterraneo orientale e la perdita di quell'alone di invincibilità sui mari, che avevano acquisito con oltre un secolo di vittorie. Certo rimane il rammarico di Venezia e dello stesso Don Giovanni per uno sfruttamento pieno di promesse non compiuto. Conviene chiudere con le parole di Fernand Braudel, che nel suo capolavoro, "Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II" scrive:
"Se, anziché badare soltanto a ciò che seguì Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d'inferiorità della Cristianità. La fine di un'altrettanto reale supremazia turca. La vittoria cristiana sbarrò la strada a un avvenire che si annunciava molto oscuro. Se la flotta di don Giovanni fosse stata distrutta, chissà? Napoli, la Sicilia sarebbero forse state attaccate, gli Algerini avrebbero cercato di riaccendere l'incendio di Granata o di estenderlo a Valenza. Prima di fare dell'ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme".

Se non si ebbero altre conseguenze immediate, oltre al fatto che "l'incanto della potenza turca fu infranto" e che era stata sfatata la fama che i turchi erano invincibili sul mare, ciò fu dovuto anche al fatto che gli inglesi, gli olandesi ed i francesi ripresero le loro manovre antispagnole. E Filippo II fu costretto, con il consueto realismo, a negare quegli uomini e quei mezzi che don Giovanni d'Austria reclamava a gran voce per portare l'attacco al cuore della mezzaluna.

 

MASSIMO IACOPI

 

BIBLIOGRAFIA

Alghisi, "Delle fortificazioni", Venezia, 1576
Beeching J., La battaglia di Lepanto, Bompiani
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"100 LIBRI PER NETTUNO" Edizione del Gonfalone 2005
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