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NETTUNO

di DON VINCENZO CERRI

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IL BOMBARDAMENTO DI CORI
DOPO LO SBARCO ALLEATO A NETTUNO

 

Erano passati appena otto giorni dallo sbarco americano a Nettuno. Le popolazioni sparse sui monti Lepini aspettavano anch 'esse con ansia l'arrivo dei "liberatori". La città di Cori si era popolata di soldati tedeschi e gli Americani lo sapevano. Il 27 gennaio spedirono da Nettuno le prime granate shrapnel, forse per sollecitare la popolazione a mettersi in salvo. Il 30 avvenne il primo bombardamento.
Un nostro carissimo amico ha vissuto di persona quelle ore tragiche e ne ha lasciato il ricordo su alcuni fogli dattiloscritti che lui stesso; alcuni anni dopo, ci regalò. Crediamo opportuno pubblicarli almeno parzialmente, anche perché sono strettamente connessi con gli avvenimenti bellici di Nettuno.

30 gennaio 1944 - Bombardamento di Cori
L'attesa dei "liberatori" dava la febbre. La mattina del 27 gennaio accadde un fatto nuovo che mise in subbuglio la popolazione. Diverse granate shrapnel, partendo dal mare, vennero ad esplodere sul paese. Era il primo saluto che ci mandavano le navi americane? Il sibilo e la potente detonazione gettarono lo scompiglio e il panico: tanto più che si ripeterono, qual minaccioso avviso, per due notti consecutive. Capimmo che la permanenza a Cori non era più sicura: la guerra stava per travolgere inesorabilmente nel suo vortice anche il pacifico paese.
Buona parte degli abitanti fuggirono in montagna, ma troppo breve fu il tempo per permettere un completo e ordinato sfollamento; tanto più che non mancavano i soliti testardi ottimisti, che non prevedono la disgrazia se non quando già è accaduta.
Dall'Agro pontino era un ininterrotto affluire di sinistrati, di feriti: in condizioni pietose, dopo lunghe ore di cammino a piedi o sugli eterni barocci. La vista, il racconto delle loro sventure ci muoveva a compassione: senza pensare che quanto prima anche a noi sarebbe toccata la medesima sorte.
La domenica mattina del 30 gennaio, alle ore 9,30 circa avvenne la catastrofe. Celebrai per tempo, com' era mio costume, nella collegiata; però, al contrario delle precedenti domeniche, considerata la scarsità dei fedeli, mi astenni dalla binazione e me ne tornai a casa.Dopo breve tempo ero fuori dell'abitato. All'imboccatura della piazza mi fermai a discorrere con un gruppo di bravi giovanotti sugli avvenimenti militari e politici - argomento preferito nelle conversazioni domenicali quando un rombo improvviso di fortezze volanti venne ad interromperci. Ne seguimmo la rotta, le vedemmo passare sopra la testa, poi allontanarsi... Ci sforzammo di rimanere indifferenti, ma senza riuscirci; riprendemmo a discorrere, ma l'aria non era più tranquilla. Sopraggiunse il rombo di altre squadriglie: più minaccioso, più cupo. Cresceva sempre, c'investì fino a stordirci; poi l'urlo di un apparecchio in picchiata, il fischio della bomba sganciata, un'immensa detonazione come uno squarcio di metalli...
Precipitammo dentro un portone, in attesa del nostro destino. Dove andare? I giovani correvano su e giù, come impazziti; li esortai alla calma, a non muoversi, a far l'atto di dolore, e impartii l'assoluzione generale.
Gli schianti si succedevano e s'accavallavano orribilmente. Le case ci crollavano vicino con uno schianto che lacerava i timpani; una pioggia di calcinacci e di vetri infranti sulla strada, poi un fitto polverone ci avvolse in un buio asfissiante. Il palazzo dentro il quale eravamo ricoverati si scuoteva paurosamente e aspettavamo che da un momento all'altro ci crollasse addosso. Pochi minuti durò quell'inferno, ma lunghi un'eternità. Finalmente passarono. Uscimmo di corsa, nell'incubo di una seconda ondata. Ma dove andare? Dappertutto nuvoloni di polvere che accecavano e montagne di macerie che impedivano la fuga. La gente correva in ogni parte come forsennata; una giovane, scapigliata e bianca dì polvere, mi sfiorò correndo e urlando tenendosi stretto al seno un neonato. Erano scene apocalittiche. Una donna che gridava come disperata, attirò la mia attenzione. Appena vicino, mi accorsi di due ragazze che si dimenavano sotto le fumiganti macerie nello sforzo vano di uscirne. Mi riuscì di liberarle in pochi momenti, senza ferite; solamente ad una uno strappo al polpaccio, perché incastrato fra tavoloni chiodati.
Un centinaio di passi fuori dell'abitato mi fermai, sempre in attesa di una seconda ondata. Fortunatamente questa non venne; vennero invece i primi feriti. Volti sfregiati e nigati di sangue, arti penzoloni, brandelli di carne lordati di terra... Giovani, vecchi, bambini, madri, figli... Quanta innocente umanità massacrata inutilmente!
Quadri da diluvio universale! Un padre scappa verso i monti portando in braccio il figlio, le cui interiora pendono di fuori; una madre si allontana portando sulla spianatoia il capo del suo figlio morto, per non lasciarlo solo tra le macerie... Tutti corrono come impazziti verso la montagna, verso il monte sacro della Ginestra, dove il santuario della veneratissima immagine di Maria del Soccorso apre le porte ospitali come un materno rifugio. Per fortuna si trova lì vicino un pronto soccorso della Croce Rossa tedesca e il dottore tedesco, aiutato da medici del luogo, si presta con generosità alle prime medicazioni.
Ma i feriti erano troppi e a soccorrerli si era in pochi. I gemiti più pietosi e le urla più disperate laceravano l'aria puzzolente di calcinacci e di morte. Giunse una mamma con una creaturina di due anni invocando aiuto per la bimba che le moriva. Il medico intervenne prontamente, ma il tremito della membra e il colore cianotico del viso davano poca speranza: dopo cinque minuti le spirò in seno.
Fanciulle floride, giovani nerboruti, rovinati per tutta la vita... E tutto questo, perché? Che ha a che fare con la guerra la popolazione civile? Atroce ironia della guerra attuale, che per salvaguardare la "civiltà" non disdegna di ricorrere ai mezzi più feroci ed incivili.
Arrivano le voci che sotto le macerie gemono tanti feriti. Ritorno al paese con la buona speranza di prestare aiuto; ma purtroppo si è in pochissimi. Pochi sono anche i parenti che si curano di salvare i loro cari... Le grandi occasioni sono il crogiuolo dell'animo umano. In alcuni si è palesato in quel giorno un animo gretto, che il cristianesimo ha appena scalfito...
Mi affrettai verso la mia collegiata. Non c'era più. Soltanto qualche mozzone di mura perimetrali; il resto un groviglio mostruoso di pietre e di travi. Alcuni morti apparivano alla superficie, ma i più erano sotto. Una povera donna stava ancora sul banco, le mani congiunte e il capo inchinato: sembrava la preghiera della morte. Sotto le macerie dell'altare maggiore giaceva fulminato il povero arciprete, vestito ancora dei sacri paramenti. La morte l'aveva colpito mentre compiva il più sacro dei riti; finito insieme alla sua chiesa, che aveva tanto amata...
Un brivido mi scosse al pensiero che lì, sotto quelle rovine, avrei trovato anch'io la tomba, se non avessi avuto quella divina ispirazione!
Volgo lo sguardo verso le rovine spaventose di una casa: sento un lamento. Vedo un vecchio intento a scavare. Mi spiega che si tratta del figlio, padre di famiglia, rimasto sotto le macerie. Vado un pò in giro in cerca di aiuto; i pochi uomini che incontro si rifiutano. Incontro un tedesco, buon cattolico: lo prego di aiutarmi ad angariare qualche giovanotto, come sanno far loro. Poco dopo torna con due operai ed insieme compiamo l'opera di salvataggio. I gemiti dello sventurato si sono affievoliti, mentre scorrono le ore nell'aspra fatica. Finalmente affiora una spalla, poi la testa, in ultimo le gambe: un corpo tutto contuso, ma vivo...
Parecchi paesani sarebbero salvi se ci si fosse adoperati in molti a dissotterrarli, invece di pensare egoisticamente solo alla propria pelle. Una donna restò quasi tre giorni a gemere sotto le macerie: quando fu tratta fuori, la poveretta, era acora viva, ma troppo tardi: dopo poche ore morì.
Quella giornata di sangue e di lutto volgeva ormai al tramonto. Il sole, cadendo dietro il mare, gettava una tinta sanguigna sulle rovine, un'ombra di tristezza infinita sulle cose.. Mi accorsi allora di essere sfinito: mi sentii solo, sperduto tra quei mucchi di desolazione. Ancora qualche donna, con enormi fagotti sopra il capo, e qualche giovanotto, con materassi sulle spalle, si affrettava ad uscire dal paese. La morte vi era piombata addosso con accanimento e ne aveva spento ogni ridente aspetto: in un attimo, come invasa da un'orgia di distruzione.
Anche per me era venuta l'ora di uscire. Un ultimo sguardo al paese massacrato:
"E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago alla riva si volge all'acqua perigliosa e guata, Così l'animo mio, ch'ancor fuggiva si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò giammai persona viva".
(inf. I)

Poi, lentamente, quasi barcollando, mi avviai verso la montagna, a far la Via Crucis col mio popolo infelice...

Mons. Giuseppe Marafini

Mons. Giuseppe Marafini, parroco a Cori nel 1944, poi rettore del seminario di Velletri e quindi
vescovo di Veroli e Frosinone

 

 

 

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